20 anni della strage di Nassiriya

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    Burattinaia

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    “Un sms a scuola e poi i carabinieri, capii subito”, il ricordo dopo 20 anni della strage di Nassiriya
    Il 12 novembre 2003 a Nassiriya un camion che trasportava esplosivo saltava in aria davanti all’ingresso di una delle sedi militari dei carabinieri. Morirono 28 persone, in molti rimasero feriti. Si trattò di uno dei più disastrosi attentati a partire dal dopoguerra. A vent’anni dalla tragedia il ricordo di Marco, figlio del vicebrigadiere Intravaia, rimasto coinvolto nell’esplosione.

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    Sono trascorsi venti anni dalla strage di Nassiriya in Iraq. La mattina del 12 novembre 2003, un’autocisterna blu piena di tritolo con a bordo due terroristi, esplodeva davanti all’ingresso della base militare Maestrale, sede dell’unità specializzata multinazionale dell’Arma dei Carabinieri.

    Fu uno degli attentati più gravi e drammatici per le forze armate italiane dal dopoguerra. L’esplosione provocò la morte di 28 persone: 19 italiani di cui 12 erano carabinieri e 9 iracheni. Nell’attentato persero la vita anche due civili: il regista Stefano Rolla, il quale si trovava sul posto con la sua troupe per girare un documentario e Marco Beci, un cooperante internazionale.

    I due attentatori vennero uccisi poco dopo da Andrea Filippa, carabiniere di guardia all’ingresso della sede che riuscì a sparare loro, evitando che la strage si aggravasse ancora di più.

    Quella data segnò un buco nero per tutte le famiglie che da quel giorno non poterono più riabbracciare i propri cari. Tra queste c’è quella di Domenico Intravaia, vicebrigadiere siciliano in missione a Nassiriya che perse la vita durante l'esplosione.

    A Fanpage.it, suo figlio Marco, all'epoca sedicenne, ha ricordato il dolore di quel giorno, quando alcuni carabinieri arrivarono nella sua scuola per informarlo su quanto stesse accadendo a suo padre a migliaia di chilometri da casa.

    Il figlio di Intravaia

    Si ricorda le parole di chi quel giorno le spiegava cose fosse successo a suo padre?
    Sì, perfettamente. Ero in classe e a una mia compagna di banco arrivò un sms in cui venivano date le notizie dei tg. Tra questi c'era il messaggio che comunicava dell'attentato al contingente italiano in Iraq. In quel momento ebbi come un presentimento e chiamai subito casa. A rispondermi non fu mia madre bensì un parente che non aveva motivo di essere lì e immediatamente capii che qualcosa non andava.

    Da lì a poco vennero i carabinieri a prendermi a scuola e mi portarono a casa, dove nel frattempo c'erano altri colleghi di mio padre arrivati per dare la notizia alla mia famiglia. Ricordo che durante il tragitto da scuola verso casa, mi spiegavano quanto stava accadendo, mi dicevano di stare tranquillo e che mio padre era solo disperso.
    Cercarono di addolcire quella che era una dolorosissima notizia, la quale poi appresi non appena arrivai a casa da mia madre.

    Lei all'epoca era solo un adolescente, come ha gestito questo dolore così grande?
    Non è stato semplice. Mia madre era giovanissima e avevo una sorella più piccola, la quale non è stata bene. Così come non sono stato bene io: dopo qualche mese dalla morte di mio padre mi ammalai di anoressia. Fortunatamente ho avuto la forza di risollevarmi, di rimboccarmi le maniche e l'ho fatto per mia madre e mia sorella, ma soprattutto per mio padre. Dovevo rendere onore alla sua memoria con grande orgoglio, un orgoglio che continuo a provare tutti i giorni.

    In che modo è riuscito a tenere vivo il ricordo di Domenico e di quello che è accaduto venti anni fa?
    Il nome di mio padre l'ho portato dovunque mi fosse concesso, a testimonianza del fatto che lui e i suoi colleghi ci hanno lasciato facendo un grande sacrificio. Ho parlato in tantissime scuole italiane, piazze, ho partecipato a tante iniziative proprio per parlare del sacrificio di Nassiriya e in generale delle forze armate all'estero. Siamo riusciti ad andare avanti facendoci forza l'uno con l'altro, anche con gli altri parenti delle vittime coinvolte in questa tragedia. Insieme siamo diventati un'unica famiglia.

    Ha sentito la solidarietà dello Stato in quei mesi?
    Le istituzioni sono fatte da uomini e come tali ognuno ha le proprie emozioni e sensibilità. Diciamo che in quel periodo dipendeva da chi ricopriva i ruoli di comando, l'approccio è stato senz'altro differente. Con alcune istituzioni abbiamo ricevuto grande rispetto e attenzione nei confronti della nostra storia, una vicinanza vera e sentita. Con altre invece è stata percepita come mera formalità, altre volte c'è stato anche menefreghismo.

    Siamo sempre andati avanti a testa alta, consapevoli e orgogliosi del fatto che lo Stato per me è mio padre. Un uomo che ha deciso di immolarsi pur essendo consapevole dei rischi a cui andava incontro. Sapeva che poteva morire da un momento all'altro, ciò è emerso anche dalla vicenda giudiziaria e dai numerosi avvertimenti da parte dei servizi segreti americani e inglesi che segnalavano ai militari italiani, nelle settimane antecedenti alla strage, il pericolo.

    Nonostante questo lui e i suoi colleghi sono rimasti lì in silenzio, obbedendo agli ordini superiori. Ecco perché sono considerati degli eroi. Non per il semplice fatto che sono morti perché purtroppo si sa, gli incidenti sono dietro l'angolo soprattutto quando si sceglie di intraprendere una simile strada, ma per il coraggio che hanno avuto che non è da tutti.

    Che uomo era il Signor Intravaia quando non indossava la divisa?

    Era un papà simpaticissimo, affabile, affettuoso. Tolta la divisa in casa con gli amici era un'altra persona. La sua assenza l'abbiamo avvertita ancora di più proprio perché non era una persona che passava inosservata. A parte i primi mesi poi abbiamo imparato a convivere con l'idea che non fosse più fisicamente con noi.

    Lui era presente, in casa ne abbiamo continuato a parlare e anche fuori. Siamo riusciti a renderlo per sempre vivo. Questi venti anni sono trascorsi così velocemente forse proprio per questo.

    Cosa sanno i suoi figli di chi era loro nonno?

    Mio figlio più grande ha sette anni e parla di suo nonno come se l'avesse conosciuto. Ciò è stato possibile attraverso i nostri racconti, le fotografie esposte ovunque in casa…ma anche e soprattutto grazie alla scuola. Nassiriya ormai è una pagina di storia e tutti hanno possibilità di approfondire l'argomento.

    Dopo i fatti del 2003 ha mai pensato di intraprendere la carriera di suo padre?

    Sì, sicuramente è stato il primo pensiero. Volevo portare avanti la sua missione ma sono stato frenato dal fatto che, se avessi voluto arruolarmi all'epoca, avrei dovuto lasciare sole in Sicilia mia madre e mia sorella, la quale aveva appena 12 anni.

    Non l'ho voluto fare e allo stesso tempo per portare comunque avanti la mia missione e i valori in cui credevo tanto, mi sono dedicato alla politica. Un interesse che mi aveva trasmesso in vita mio padre. Dopo la sua morte ho deciso di impegnarmi ancora di più in questo.

    Ci sono delle amarezze che l'affliggono ancora riguardo questa vicenda?

    Sì e sono le stesse che provano anche le altre famiglie delle vittime dell'attentato. La prima riguarda la vicenda giudiziaria ancora aperta a distanza di venti anni, nonostante ci sia stata una condanna in Corte di Cassazione di un generale dell'esercito, l'allora comandante del contingente. Quest'ultimo nonostante i vari avvertimenti dei servizi segreti non ha ritenuto di dover adottare tutte le misure tali da garantire la sicurezza degli uomini. Se l'avesse fatto probabilmente si sarebbe ridotta l'entità della strage.

    La seconda invece riguarda il mancato conferimento della medaglia d'oro al valor militare, ossia la massima onorificenza che chi cade in servizio può ottenere. Ai caduti di Nassiriya non è stata ancora consegnata.
     
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