Palmiro Togliatti

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    Palmiro Michele Nicola Togliatti (Genova, 26 marzo 1893 – Jalta, 21 agosto 1964) è stato un politico italiano, guida storica del Partito Comunista Italiano. Nel 1930 prese la cittadinanza sovietica.

    Dopo la fondazione del Partito Comunista d'Italia vi aderì e, dalla fine del 1926 fino alla morte, fu segretario e capo indiscusso del Partito Comunista Italiano (con un'interruzione dal 1934 al 1938), del quale era stato il rappresentante all'interno del Comintern (di qui, per le sue capacità di mediatore fra le varie anime del partito, lo pseudonimo di «giurista del Comintern» attribuitogli da Lev Trotskij), l'organizzazione internazionale dei partiti comunisti d'osservanza moscovita. Anche di questo organismo Togliatti fu uno degli esponenti più rappresentativi e, dopo che esso fu sciolto nel 1943 e sostituito dal Cominform nel 1947, rifiutò la carica di segretario generale, offertagli direttamente da Stalin nel 1951, preferendo restare alla testa del partito in Italia e cominciando a nutrire dei dubbi sulla politica del leader sovietico, fatto che gli farà approvare in pieno la linea di Nikita Chruščëv al XX congresso del PCUS (1956).

    Dal 1944 al 1945 ricoprì la carica di vicepresidente del Consiglio e dal 1945 al 1946 quella di ministro di grazia e giustizia nei governi che ressero l'Italia dopo la caduta del fascismo. Membro dell'Assemblea Costituente, dopo le elezioni politiche del 1948 guidò il partito all'opposizione rispetto ai vari governi che si succedettero sotto la guida della Democrazia Cristiana, proponendo, dopo anni di ortodossia stalinista[, la "via italiana al socialismo", cioè la realizzazione del progetto comunista tramite la democrazia, ripudiando l'uso della violenza e applicando la Costituzione italiana in ogni sua parte. Sopravvissuto ad un attentato nel 1948, Togliatti morì nel 1964, durante un periodo di vacanza che stava trascorrendo in Crimea sul Mar Nero, nell'allora Unione Sovietica.
     
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    A conti fatti svariati individui, il cui documento d’identità dichiara come “italiani”, hanno servito o tutt’oggi servono governi stranieri. Un eccezionale esempio ce lo ha donato Palmiro Togliatti. Amico e compagno di Antonio Gramsci, poi Segretario dell’Internazionale comunista nel 1937, Togliatti prende dimora in Russia per tornare in Italia nel 1944 come ministro nel governo Badoglio. Diviene poi ministro di Grazia e Giustizia tra il 1945 e il 1946, assumendo la dirigenza del Partito Comunista Italiano; nel 1964, data della sua morte, anche in ricordo del fidato servizio reso all’ebreo Iosif Vissarionovic Dzugasvili alias Stalin, il governo russo fa cambiare nome alla città di Stavropol in «Togliatti» (Toljatti). Come curiosità si può rammentare che in tale città, noto centro petrolifero, è impiantato dalla FIAT uno stabilimento automobilistico; ma non è questo il punto.
    Nel corso della Seconda guerra mondiale l’Italia inviò sul fronte russo il CSIR (Corpo di Spedizione Italiano in Russia), a cui fece seguito, su pressione di Mussolini, l’8a Armata Italiana in Russia, meglio nota come ARMIR, costituita in buona parte da Alpini. Quanti non tornarono? Le cifre sono tante, spesso discordanti. Riporto quella di Giulio Bedeschi:
    “Quando si parla dei 74.800 'non tornati', si fa riferimento ai militari dell’ARMIR, schierati sul fronte al Don nell’inverno ’42-’43 fra 229.005 uomini che componevano l’Ottava Armata Italiana, impegnati quindi nelle disastrose battaglie di quell’inverno e nella ritirata che le concluse” (Ministero della Difesa – Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra e U.N.I.R.R. [Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia], Elenco Ufficiale dei prigionieri italiani deceduti nei lager russi, Supplemento de il Notiziario U.N.I.R.R., 4° fascicolo, n. 45, Milano, p. 12). Ho indicativamente calcolato che dalla Russia tornò un Italiano su due e delle sole Divisioni Alpine tornò in Italia un Alpino su dieci.
    Desidero poi ricordare un’altra fonte, la quale afferma che «su circa 70.000 soldati italiani catturati dall’Esercito Rosso dopo la disfatta dell’ARMIR, 10.087 furono rimpatriati, ovvero solamente il 14%. Tale percentuale risulta spaventosamente bassa soprattutto se confrontata con le percentuali di prigionieri di guerra italiani rimpatriati dalle altre potenze belligeranti: il 99% dagli Stati Uniti e dalla Francia ed il 98% dalla Germania e dall’Inghilterra» (Vaglica L., I prigionieri di guerra italiani in URSS. Tra propaganda e rieducazione politica “L’Alba” 1943-1946, Prospettiva Editrice, Civitavecchia 2010, p. 5). Anche su questo punto le cifre discordano, ma, ad ogni buon conto, ha importanza sapere che la percentuale dei morti nei campi di concentramento sovietici fu del 70% o del 90%? Non sto facendo accademia, sto parlando di persone scomparse e le cifre restano sempre e comunque enormi. Rimane inalterata la colpa dell’eccidio, è immutato l’orrore di migliaia di persone private della vita. Perché? Leggetevi, ad esempio, il libro di Enrico Reginato “12 anni di prigionia in URSS” (Garzanti, Milano 1955). Ma di libri sull’argomento ne sono usciti a decine, quasi tutti validi; lasciano invece perplessi quelli che propugnano la bontà degli agenti italiani comunisti nonché l’umana utilità del giornale “L’Alba” (di cui vi parlo più avanti). Oltre alla conclamata brutalità con cui il governo sovietico trattava i prigionieri, e senza scendere nei dettagli riguardo la brutalità di molti suoi soldati, qualcuno non desiderava che italiani non pentiti e non indottrinati al pensiero comunista tornassero in patria. Soprattutto non dovevano tornare coloro i quali si erano ribellati all’indottrinamento, che erano la maggior parte.
    Ecco che cosa pubblica Riccardo Baldi nel sito da lui curato “4a Divisione Alpina Cuneense. Campagna di Russia”: «Nel 1992, qualche anno dopo l’apertura degli Archivi di Mosca, lo storico Franco Andreucci, scopre una lettera scritta da Palmiro Togliatti (alias “Ercoli”) il 15 febbraio 1943 a Vincenzo Bianco (allora funzionario del Komintern). Nella lettera, suddivisa in vari capitoli, Togliatti risponde alle varie questioni politiche sollevate dal Bianco. Al terzo capitolo (vedi pagine 7, 8 e 9) della lettera, dove Bianco evidentemente chiedeva a Togliatti di fare qualcosa per i tanti prigionieri italiani nei Gulag russi, la risposta di Togliatti è agghiacciante: “...L’altra questione sulla quale sono in disaccordo con te, è quella del trattamento dei prigionieri. Non sono per niente feroce, come tu sai. Sono umanitario quanto te, o quanto può esserlo una dama della Croce Rossa. La nostra posizione di principio rispetto agli eserciti che hanno invaso la Unione Sovietica, è stata definita da Stalin, e non vi è più niente da dire. Nella pratica, però, se un buon numero dei prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire, anzi e ti spiego il perché. Non c’è dubbio che il popolo italiano è stato avvelenato dalla ideologia imperialista e brigantista del fascismo. Non nella stessa misura che il popolo tedesco, ma in misura considerevole. Il veleno è penetrato tra i contadini, tra gli operai, non parliamo della piccola borghesia e degli intellettuali, è penetrato nel popolo, insomma. Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore, è il più efficace degli antidoti. Quanto più largamente penetrerà nel popola la convinzione che aggressione contro altri paesi significa rovina e morte per il proprio, significa rovina e morte per ogni cittadino individualmente preso, tanto meglio sarà per l’avvenire d’Italia...”. (tratto dal sito Internet: www.cuneense.it).
    La lettera suona come una condanna a morte. Nei campi di concentramento i sovietici si premurarono di operare la rieducazione politica dei prigionieri, anche attraverso la pubblicazione di giornali. Coadiuvati da comunisti italiani pubblicarono “L’Alba. Per un’Italia libera e indipendente. Giornale dei prigionieri di guerra italiani in Unione Sovietica”: «Il giornale riusciva a raggiungere tutti i campi disseminati nell’intera Unione Sovietica e dal 1945 anche quelli che ospitavano gli italiani, già prigionieri dei nazisti in Germania, “liberati” dai russi nella loro avanzata e trasferiti nelle retrovie ucraine e bielorusse in lager sovietici istituiti dopo la liberazione di quei territori. Il comitato di redazione di quel giornale vantava nomi illustri di antifascisti comunisti italiani quali lo stesso Togliatti, che si firmava con gli pseudonimi di Ercole Ercoli o Mario Correnti, Vincenzo Bianco, Giovanni Germanetto, Ruggero Grieco, Giulio Cerreti, Anselmo e Andrea Marabini, Romolo Rovera, Luigi Longo, Edoardo D’Onofrio. Dopo i primi quattro numeri sotto la direzione di Rita Montagnana, compagna di Palmiro Togliatti, il giornale fu poi diretto fino all’agosto del 1944 da Edoardo D’onofrio, infine da Luigi Amaldesi e Paolo Robotti» (Vaglica L., op. cit., pp. 177-178).
    Edoardo D’Onofrio, nato a Roma nel 1901, nel 1921 passò dal Partito Socialista al Partito Comunista d’Italia e l’anno successivo si recò a Mosca al IV Congresso dell’Internazionale. Nel 1943 venne incaricato dal Partito Comunista Sovietico di dirigere il lavoro politico tra i prigionieri italiani. Nel 1948 fu oggetto di una campagna di stampa che lo indicava come aguzzino dei soldati italiani prigionieri di guerra in Russia. Questo perché si rimase indignati dal fatto che il personaggio, deputato alla costituente nei seggi del PCI, stesse per essere eletto senatore della Repubblica Italiana. D’Onofrio denunciò gli autori degli scritti, ma perse la causa e dovette pagare le spese processuali. Nel 1954 fu oggetto di un’ulteriore campagna di stampa, ma ugualmente fu eletto Vicepresidente della Camera. Limitiamoci alla prima denuncia e leggiamo cosa si scrisse nel numero unico “Russia”, edito a cura dell’UNIRR (Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia):

    «D’Onofrio durante la sua permanenza nei campi di concentramento di Oranki e di Skit:
    1. assistito dal Fiammenghi e alla presenza di un Ufficiale dell’N.K.V.D. ha sottoposto ad estenuanti interrogatori i prigionieri italiani detenuti in quei campi;
    2. non si trattava di semplici conversazioni politiche, come ipocritamente il D’Onofrio vorrebbe far credere, ma di veri e propri interrogatori di carattere politico che spesso duravano delle ore e durante i quali veniva messo a verbale quanto il prigioniero rispondeva;
    3. immediatamente dopo la visita di D’Onofrio in quei campi, alcuni dei prigionieri italiani che in quei giorni erano stati sottoposti ad interrogatorio furono allontanati e rinchiusi in campi di punizione e ancora oggi alcuni sono trattenuti nei campi di concentramento di Kiev;
    4. simili procedimenti avevano il duplice scopo di far crollare prima con lusinghe e poi con esplicite minacce (“non ritornerete a casa”; “lei non conosce la Siberia?” allusioni alla famiglia, carcere e simili) la resistenza fisica e morale di questi uomini ridotti dalla fame, dalle malattie, dai maltrattamenti a cadaveri viventi e guadagnare l’adesione degli altri prigionieri intimoriti dall’esempio della sorte toccata a questi.
    Firmato: Domenico Dal Toso, Luigi Avalli, Ivo Emett, etc.» (tratto da “Russia”, pag. 7. Consultabile su internet ai siti: www.cuneense.it, www.bibliotecapersicetana.it, etc.).

    Dopo tali dichiarazioni D’Onofrio denunciò per diffamazione gli Autori e il processo ebbe inizio nel maggio 1949, durando tre mesi con 33 udienze, i cui atti sono consultabili anche nel sito www.controstoria.it. Ecco uno stralcio del verbale relativo alla prima giornata del processo:

    «Dal Toso: — Lasciammo Krinovaia in 400 ufficiali. Giungemmo ad Oranki in 290. Gli altri erano morti durante il trasferimento compiuto nell’interno di carri bestiame e senza alcun cibo. Nel nuovo campo scoppiò una violenta epidemia di tifo petecchiale. Ma non fu dato altro medicamento che del permanganato. Quando fui trasferito al campo convalescenziario di Skit, pesavo soltanto 39 chili.Durante la permanenza ad Oranki venne per la prima volta il Fiammenghi il quale tenne numerose conferenze ai prigionieri.
    Presidente: — Cosa vi disse in particolare il Fiammenghi?
    Dal Toso: — Voleva conoscere la nostra opinione politica.
    (...)
    A domanda del presidente, Dal Toso precisa che il signor D’Onofrio, comunista, si qualificò di professione “cospiratore”.
    Presidente: — Come, come?...
    Dal Toso: — Sì, sì, professione “cospiratore”. Così ci disse. Egli era accompagnato da un ufficiale della polizia russa. Prima ci parlò a lungo della patria lontana, delle nostre case, delle famiglie, provocando la comprensibile commozione dei presenti. Poi ritornò per farci firmare il famoso appello al popolo. Il cap. Magnani, che era a capo della nostra comunità, rispose a nome di tutti che i soldati e gli ufficiali italiani erano legati da un giuramento al Re e che quindi mai avrebbero potuto firmare un appello del genere. D’Onofrio andò su tutte le furie e la sua reazione fu immediata. Il capitano Magnani fu chiamato dal D’Onofrio ed ebbe con lui, presente un capitano russo, un colloquio durato due ore Al termine di esso il Magnani aveva il viso stravolto. Il giorno successivo veniva trasferito in altro campo e da allora non s’è saputo più nulla di lui se non che fu rinchiuso in un campo di punizione. D’Onofrio aveva detto: “Al capitano Magnani ci penso io”.
    (...)
    Subito dopo viene introdotto il secondo reduce querelato. È il tenente di fanteria della divisione Sforzesca, Luigi Avalli, fatto prigioniero nell’agosto 1942 in Russia. È tutto un racconto di sofferenze senza nome che si riassumono nel desiderio più volte espresso dai prigionieri di essere fucilati piuttosto di continuare a vivere in quegli infernali campi di concentramento. Krinovaja - Minciurinsk - Tamboff: nessuno ne parla eppure erano simili e forse anche peggiori di Meidanek - Buchenwald - Mathausen che tutto il mondo conosce! L’imputato narra le pressioni politiche cui i prigionieri erano sottoposti, con le continue conferenze, le domande, gli interrogatori del Fiammenghi e del D’Onofrio, che richiamavano all’ordine chiunque osasse esprimere opinioni sfavorevoli sul regime sovietico. Con questa deposizione s’è chiusa la prima udienza. L’atmosfera nell’aula è grave, pesante. Il racconto dei reduci ha lasciato in tutti una penosa impressione» (tratto da: www.bibliotecapersicetana.it).

    Certamente Togliatti, D’Onofrio, Fiammenghi & C. meriterebbero ulteriori, numerosi e circostanziati articoli riguardanti la loro signorile attività. Voglio augurarmi che qualcuno lo faccia. Intanto si può utilmente leggere il libro di Alessandro Frigerio “Reduci alla sbarra” (Mursia 2006) o vedere il documentario “1949. Reduci alla sbarra – Il caso D’Onofrio” della regista Emanuela Rizzotto (Produzione Fast Rewind, 2009). A questo punto, per rendere più chiaro e inequivocabile il quadro, riporto quanto scritto nel 1958 dall’Ufficio del Legato Italiano presso la Commissione Speciale dell’O.N.U.:

    «Dall’ultimo rapporto della Commissione Speciale dell’ONU per i prigionieri di guerra fatto al Segretario Generale delle Nazioni Unite al termine della VII Sessione di Ginevra si sono tratti alcuni dati, che possono dare la sensazione dei risultati conseguiti e quanto ancora rimane da conoscere sui prigionieri e dispersi dei tre Paesi maggiormente interessati. I dati si riferiscono al periodo 1950-1957 e cioè dalla istituzione della Commissione fino alla VII Sessione della stessa – secondo le segnalazioni fatte dai Governi:
    - Militari e civili della Germania Occidentale rimpatriati dall’URSS, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Romania e altri paesi. N. 30.000 (circa).
    - Militari e civili del Giappone, rimpatriati dalla URSS, Cina, Australia, Filippine e altri paesi. N. 34.000 (circa).
    - Militari e civili dell’Italia, rimpatriati dalla URSS, Polonia, Albania, Jugoslavia ed altri paesi. N. 101.

    - I mancati della Germania, Giappone, Italia:
    Prigionieri detenuti in URSS della Germania: 68.
    Prigionieri detenuti in URSS del Giappone: 1.300.
    Prigionieri detenuti in URSS dell’Italia: /.
    - Prigionieri dei quali è stata provata la cattività in URSS, non rimpatriati e dei quali si ignora la sorte: Germania 100.000 (circa); Giappone 8.000; Italia 1396.
    - Dispersi in URSS: Germania 1.200.000 (circa); Giappone 370.000; Italia 63.654.

    Dopo la segnalazione di tali dati e a conclusione del suo rapporto, la Commissione fa rilevare ancora una volta il rifiuto del Governo dell’URSS di cooperare con la Commissione, la quale provvide a precisare sempre nei rapporti dell’Assemblea Generale dell’ONU i termini della questione dei prigionieri di guerra fatti durante la seconda guerra mondiale e cioè che essa fosse risolta d’accordo in uno spirito di pura umanità ed in termini accettabili da tutti i Governi interessati. Rinnova infine l’appello a questi Governi ed alle varie Organizzazioni di continuare i loro sforzi perché il problema dei prigionieri di guerra non era stato ancora completamente risolto» (Ufficio del Legato Italiano presso la Commissione Speciale dell’O.N.U. per i prigionieri di guerra, Note e documenti riguardanti i militari italiani prigionieri e dispersi in Russia, Milano 1958, pp. 44-45).

    La gente è libera di “benpensare” quello che desidera, ma il dato di fatto dell’eccidio premeditato rimane: «Purtroppo la mortalità continuò ad infierire sia per le epidemie, portate e diffuse dai nuovi arrivati, sia per il persistere di trattamenti al di sotto della soglia di sopravvivenza» (Ministero della Difesa – Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra, CSIR – ARMIR. Campi di prigionia e fosse comuni, Stabilimento Grafico Militare, Gaeta 1966, p. 1).

    E i nostri servi di regime, prima di profferire parola, si leggano i vari fascicoli del Ministero della Difesa – Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra e U.N.I.R.R. “Elenco Ufficiale dei prigionieri italiani deceduti nei lager russi”. Soprattutto la si smetta di ripetere a pappagallo che molti soldati italiani, e soprattutto Alpini, preferirono fermarsi spontaneamente in Russia mettendovi su famiglia. E per tal motivo non rientrarono in patria.
    «È stato artificiosamente costruito un rifiuto psicologico nei confronti di tutto ciò che riguarda la partecipazione italiana in Russia. Non se ne parla. Non se ne deve parlare! Ci si scontra con l’incredulità, con la negazione teorica che ciò che è avvenuto in Russia non sia mai avvenuto. Non sono valsi i sublimi eroismi personali e collettivi, non sono serviti a nulla le sofferenze ed i sacrifici, né la morte sul campo o in prigionia a sollevare quella cappa di piombo che ha seppellito i morti ed i vivi. La sconfitta subìta e le circostanze che l’hanno provocata sono servite a sconfessare non solo i maggiori responsabili – il che sarebbe giustificabile – ma anche gli incolpevoli protagonisti che hanno soltanto compiuto sino in fondo il loro dovere. Intere generazioni di uomini ligi al proprio dovere sono state annientate senza che di loro sia rimasta traccia.» (Ministero della Difesa – Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra e U.N.I.R.R. op. cit., p. 9).
    Ricordare è il primo sforzo che si deve compiere per sapere chi siamo e conoscere il vero volto di chi abbiamo davanti quando ci parla: soprattutto se si tratta di un cosiddetto politico. Se il Corpo degli Alpini ha suscitato sempre e ovunque stima e rispetto, dalla parte opposta abbiamo un individuo che la nostra storia patria non ha ancora condannato. Costui non si è battuto per gli interessi e il bene del proprio popolo, ma per le mire espansionistiche di uno straniero. Se Togliatti ha detto e fatto ciò che i documenti comprovano è anche e soprattutto perché in Italia una larga schiera di sostenitori e di fiancheggiatori lo hanno protetto: questi individui, a mio parere, sono ancora peggio. Conosciamoli tutti e non dimentichiamoceli. In un’Italia doppiogiochista e corrotta la figura del Soldato onesto e dell’Alpino disturbano le coscienze e per certi versi incutono timore: sono l’immagine del cittadino che fa il proprio dovere, che onestamente si batte. Il giorno che questo cittadino sarà stanco di vessazioni e condanne a morte, che cosa succederà? Se decine di migliaia di Soldati e di Alpini non sono tornati alle loro case al termine della guerra si devono ringraziare soprattutto i comunisti italiani e coloro i quali li hanno appoggiati e difesi. Almeno che questo venga scritto a chiare lettere sui libri di storia che i nostri figli leggeranno nei giorni a venire.
     
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    Ho ricevuto questa bella riflessione sul massacro delle foibe e l’ipocrisia di una certa sinistra nei confronti degli esuli italiani da un professore di Storia e Filosofia che con piacere pubblico.

    Al massacro delle foibe seguì l’esodo giuliano dalmata, ovvero l’emigrazione forzata della maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana dall’Istria e dalla Dalmazia. Fuggivano per non morire, fuggivano per non essere infoibati, per non essere perseguitati e torturati. Si stima che i giuliani, i fiumani e i dalmati italiani che emigrarono dalle loro terre di origine ammontino a un numero compreso tra le 250.000 e le 350.000 persone.

    Fuggivano disperati e speranzosi verso la madre patria che invece, per anni, non li riconobbe, non li soccorse e li tenne in centri profughi quasi come vergogne da nascondere! Ma d’altra parte come si dovevano considerare uomini sconsiderati che scappano via dalla “libertà titina” e dal futuro radioso del socialismo? Ma è ovvio: non potevano essere che rigurgiti del fascismo, dei fascisti e dei mascalzoni in fuga!

    Leggiamo cosa disse Palmiro Togliatti (le cui posizioni sulla questione giuliano-dalmata sono certamente assai controverse), su quei poveri profughi italiani: “Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città, non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi.”
    (Da Profughi di Piero Montagnani su L’Unità – Organo del Partito Comunista Italiano – Edizione dell’Italia Settentrionale, Anno XXIII, N. 284, Sabato 30 novembre 1946)
     
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    Rieccola la Boldrini, ha detto per l’ennesima volta una «cosa di sinistra». In modo acritico, come se la storia non le avesse insegnato nulla. Ecco la sinistra al governo pronta a mettere sull’altare una sua icona, Palmiro Togliatti, fingendo di non conoscere i suoi tragici errori. Errori che hanno causato dolore e sofferenza. Per lei, che è presidente della Camera, Togliatti è stato l’«uomo di Stato» determinante per «il riconoscimento reciproco tra le diverse culture politiche dal quale nacque e prese forza la nostra Carta». Un vero democratico. E proprio per questo gli sarà dedicata la mostra promossa dalla Fondazione Gramsci che la Camera ospiterà in autunno. Una celebrazione faziosa, di un personaggio discutibile, su cui pesano pesanti ombre. «Le dichiarazioni della Boldrini su Togliatti o sono di una banalità estrema o frutto di un’ignoranza di enormi fatti storici», ha replicato Maurizio Gasparri. «La Boldrini annuncia una mostra su Togliatti in autunno. Non ci scandalizza, a patto che si documentino le responsabilità del Migliore all’interno del Comintern, a cominciare dal silenzio sulle purghe staliniste, l’eccidio degli anarchici in Spagna (voluto personalmente da Togliatti), la manipolazione dei diari di Gramsci, l’opposizione allo scambio per liberare Gramsci, l’eccidio degli Alpini italiani, l’Ungheria, la condanna a morte di Nagy (votata da Togliatti). Finanche la storiografia di sinistra ha accettato queste incontrovertibili ombre sulla figura di Togliatti. La Boldrini legga almeno la biografia scritta da Giorgio Bocca».
    «Fare oggi di Togliatti un santino politico è semplicemente ridicolo e ascoltarne la santificazione fa ridere non ci fosse da piangere», ha aggiunto a sua volta l’azzurro Francesco Giro. «Togliatti fu un leader e su questo non si discute, ma fu anche il responsabile della subalternità del Pci allo stalinismo e alla sua violenza politica contro i dissidenti interni al mondo comunista che vennero perseguitati e uccisi». Ma tutto questo alla Boldrini non interessa. Per lei è necessario dire «qualcosa di sinistra» per dare un senso al suo ruolo di presidente della Camera. La propaganda è l’anima della sinistra, la storia lasciamola pure agli studiosi.
     
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    Per quanto riguarda l'Amnistia Togliatti del '46 Si trattò, com’era logico e corretto, d'un provvedimento di clemenza omnicomprensivo(per chiunque) e per tutti i reati - eccetto quelli di particolare efferatezza - commessi fino al 30 luglio 1945, quindi anche dopo la fine della guerra. Tale termine ultimo fa comprendere che scopo non secondario dell’amnistia fu per Togliatti impedire il perseguimento giudiziario dei delitti "politici" commessi dai partigiani comunisti anche dopo il 25 aprile, a spese non solo di fascisti ormai inermi, ma anche di partigiani “bianchi” (cattolici) o “badogliani”, ufficiali del Regio Esercito (che nel dopoguerra verranno "affratellati nell'universo resistenziale), di sacerdoti e a volte di semplici “nemici di classe” (padroni). Su molti di questi crimini aveva cominciato a indagare una magistratura ordinaria molto diversa da quella attuale e da quella scalfariana (vedi sotto), creando non solo problemi ai “compagni” inquisiti - in molti casi già fuori dai confini precauzionalmente espatriati nei paesi comunisti dell'Est oltre la cortina di ferro (Cecoslovacchia), - ma esumando scheletri che il Pci faticava a tenere nascosti nei suoi pur capienti e ben custoditi armadi. Basti pensare a casi come quello di Francesco Moranino, senatore comunista e per qualche tempo sottosegretario alla Difesa, condannato nel 1956 all’ergastolo, commutato poi in dieci anni di reclusione, per un reato che neppure l’amnistia sarebbe bastata a cassare: l’assassinio di cinque partigiani “bianchi” quelli poi che diventeranno amici.
     
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    Alle 11.45 del 14 luglio 1948, l’allora segretario del Partito Comunista Italiano Palmiro Togliatti stava uscendo da Montecitorio, il palazzo di Roma dove ha sede la Camera dei deputati, quando lo studente Antonio Pallante gli sparò tre colpi di pistola. Erano passati tre mesi dalle prime elezioni politiche della storia repubblicana, in cui la Democrazia Cristiana aveva sconfitto i comunisti e i socialisti, e il clima politico e sociale in Italia era molto teso. Togliatti sopravvisse, ma l’attentato ebbe comunque grosse conseguenze: in tutta Italia furono organizzati scioperi e cortei di protesta e per qualche giorno sembrò che stesse per iniziare una guerra civile, o una rivoluzione comunista. Nei giorni successivi ci furono violenti scontri tra la polizia e i manifestanti: morirono in tutto 30 persone e altre 800 furono ferite.

    L’attentato
    Pallante era uno studente di giurisprudenza fuoricorso di 24 anni. Durante la campagna elettorale per le elezioni del 18 aprile 1948 aveva militato per il Blocco Democratico Liberal Qualunquista, un piccolo partito nato da una scissione del movimento antipolitico Fronte dell’Uomo Qualunque, quello da cui deriva il termine “qualunquismo”. Anni dopo, raccontando dell’attentato a Togliatti, Pallante disse che in quel periodo era animato da un «nazionalismo portato all’estremo».

    Pallante acquistò una pistola e andò a Roma da Randazzo, in Sicilia, dove viveva con la famiglia, con il preciso obiettivo di uccidere Togliatti: già il 13 luglio, il giorno prima dell’attentato, aveva tentato di farsi ricevere dal segretario del PCI nella sede del partito, in via delle Botteghe Oscure. Non essendoci riuscito, era andato a Montecitorio per assistere a una seduta parlamentare, grazie a due permessi speciali ottenuti da un deputato democristiano e da uno comunista. Voleva infatti vedere dal vivo Togliatti, per assicurarsi di riconoscerlo prima di sparargli.

    Quello stesso giorno il deputato socialdemocratico Carlo Andreoni, in un editoriale del quotidiano l’Umanità molto critico nei confronti di Togliatti, aveva dato al segretario del PCI del traditore e aveva scritto che la maggioranza degli italiani avrebbe dovuto avere il coraggio di «inchiodarlo al muro», «e non solo metaforicamente».

    La mattina del 14 luglio, un mercoledì, Pallante si mise ad aspettare Togliatti in via della Missione, dove si trova un’uscita secondaria di Montecitorio, quella che Togliatti era solito utilizzare. Alle 11.45 Togliatti uscì dal palazzo insieme a Nilde Iotti, deputata e sua compagna. Iotti raccontò in seguito che Pallante sparò quattro colpi: dopo i primi tre Togliatti cadde a terra, e il quarto fu sparato quando già era disteso. Solo tre proiettili comunque lo colpirono: uno lo prese alla nuca, ma non gli sfondò la calotta cranica perché i proiettili non erano di buona qualità.


    Caos
    Togliatti fu portato di urgenza al Policlinico di Roma, dove fu operato dal chirurgo Pietro Valdoni. Intanto il direttore dell’Unità Pietro Ingrao fece uscire un’edizione straordinaria del quotidiano, per raccontare dell’attentato. Inizialmente si pensava che Togliatti sarebbe morto per le ferite, perché era stato colpito alla testa e aveva perso molto sangue. Non appena se ne sparse notizia ci furono le prime manifestazioni spontanee, e moltissime persone si radunarono fuori dall’ospedale. La CGIL indisse poi uno sciopero generale, che peraltro fu all’origine della scissione con la CISL (il 22 luglio 1948), con cui i sindacalisti cattolici si staccarono da quelli comunisti.

    Le manifestazioni di reazione all’attentato furono organizzate in tutto il paese per chiedere le dimissioni del governo. Molti militanti comunisti le presero come un’occasione per far cominciare una rivoluzione in Italia, e dal giorno successivo parteciparono ai cortei armati: erano passati solo tre anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e moltissime persone possedevano ancora molte delle armi che erano state usate durante il conflitto e nella lotta partigiana. Ci furono scontri con la polizia, morti, feriti e migliaia di arresti. Anche l’esercito fu mobilitato per gestire la situazione.

    Non appena si riprese dall’operazione chirurgica, Togliatti invitò i dirigenti del Partito Comunista e i suoi sostenitori a interrompere le manifestazioni per evitare che la tensione aumentasse. Già il 15 luglio Giuseppe Di Vittorio, il capo della CGIL, interruppe lo sciopero generale, e il giorno successivo i deputati comunisti ritirarono la richiesta di dimissioni del governo. Togliatti tornò alla direzione del PCI a settembre e criticò chi aveva partecipato al tentativo di insurrezione, in linea con la sua strategia di legittimazione dei comunisti come potenziale forza politica di governo.




    Il racconto della storia dell’attentato e delle tensioni che lo seguirono negli anni ha spesso incluso anche il presunto contributo del ciclista Gino Bartali alla risoluzione della situazione. Il 15 luglio, infatti, Bartali vinse un’importante tappa del Tour de France (la notizia arrivò in Italia il giorno dopo) e il 25 il Tour stesso: fu un’impresa sportiva notevole visto che Bartali all’epoca aveva 34 anni. Qualcuno sostenne che l’entusiasmo per questo risultato contribuì a distrarre i manifestanti dai loro intenti di protesta e rivolta.

    Cosa successe a Pallante
    Subito dopo aver sparato contro Togliatti, Pallante fu fermato dai carabinieri e un anno dopo fu processato per tentato omicidio volontario: fu condannato e scontò cinque anni e tre mesi di carcere, grazie a riduzioni della pena e a un’amnistia nel 1953. Nonostante avesse sparato a Togliatti di sua iniziativa, dopo l’attentato furono fatte diverse ipotesi su possibili legami tra Pallante e diversi gruppi politici: dalla Democrazia Cristiana agli indipendentisti siciliani fino ai comunisti sovietici. Pallante è ancora vivo e abita a Catania; negli anni ha lavorato nel Corpo Forestale dello stato e poi come amministratore condominiale.

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    TOGLIATTI (Russia centrale) - Se volevi incontrare gli italiani, quelli che costruivano le Zhigulì, ti bastava venire qui in primavera, al campo sportivo della scuola "numero 20", durante l'ora di ginnastica del liceo femminile. Le ragazze del Volga arrivavano in fila indiana, ondeggiando su quel che restava della neve di marzo, con i loro pantaloncini corti e quelle sottili canottiere trasparenti. E tutto attorno a loro si formava, dal nulla, una folla infreddolita di operai e tecnici della Fiat, ospiti degli appartamentini costruiti apposta per loro dalle parti della vicinissima via Gagarin. E capitava di tutto: apprezzamenti, più estasiati che volgari, richieste d'appuntamento, perfino qualche serenata improvvisata con la chitarra fatta passare con mille complicazioni attraverso la frontiera. Il tutto sotto lo sguardo finto-severo dei dirigenti italiani che regolarmente si ritrovavano anche loro a passare da quelle parti al momento giusto prima di rientrare nell'albergo di un lusso tutto sovietico che stava dall'altra parte del Parco.

    Ricordi di anni eroici quando la città di Togliatti, regione di Samara, Russia centrale, era linda, curata e piena di speranze. I ragazzi e le ragazze del Komsomol, reclutati in tutta l'Unione sovietica, lavoravano giorno e notte per costruire il mostro Vaz, gioiello tecnologico di cinque milioni di metri quadri che avrebbe portato l'automobile in tutte le dissestate strade dell'Urss producendole al ritmo, allora scioccante, di duemila esemplari al giorno. E russi e italiani scoprivano di avere molte cose in comune alla faccia della Guerra Fredda e dell'incubo nucleare che turbava i sogni dei cittadini di entrambi i blocchi. Tatiana Ralka, adesso florida ultrasessantenne ricorda ancora quell'entusiasmo: "Sentivamo di costruire qualcosa di meraviglioso. Tutti quanti, anche noi bambini". Un sogno vecchio di cinquant'anni esatti se si prende per data ufficiale del "progetto Togliatti" il 15 agosto 1966 con la storica firma a Mosca dell'accordo tra il presidente (uscente) della Fiat, Vittorio Valletta, e i ministri dell'Industria automobilistica e del commercio estero dell'Urss.
     
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    Questo personaggio l'ho trovato su Rai Storia sappiamo tutti un pò Campanilista a sx

    ho voluto approfondire e andare a fare le mie ricerche, di solito si dice il bello e non si dice mai il brutto

    Personaggio simbolo del Partito Comunista diciamo un pò un tipo alla Che Guevara

    Come al solito in tanti casi si prende il buono di questo personaggio , ma non si va a guardare quanti morti ha avuto sul gobbo

    Gente pronta a farsi ammazzare o ammazzare per questo personaggio Italo-Russo

    Grazie a Dio oggi non siamo a quei livelli e imbecilli del genere portatori di morte in giro non ce nè

    Giusto che è morto in Russia

    Con l'Italia non aveva un cazzo a che fare e solo disastri ha fatto
     
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    Dopo le vacanze estive torno oggi a parlarvi di Russia e nello specifico di Togliatti, la città russa che porta il nome dell’ex segretario del Partito Comunista Italiano, Palmiro Togliatti.

    Eh si, la città si chiama proprio così, Togliatti e non Togliattigrad, come alcuni nel nostro paese credono. Tale denominazione le venne attribuita nel 1964 proprio ad una settimana dalla morte dello storico politico italiano che, con il regime sovietico, come vedremo a breve, intrattenne rapporti molti stretti.

    Togliatti, con i suoi settecentomila abitanti è l’agglomerato urbano russo più popoloso fra le città non capoluogo e fa parte della regione di Samara. Situata sulla riva sinistra del fiume Volga, dista circa ottocento chilometri a sud-est dalla capitale Mosca. La posizione, molto distante dai mari e vicina al 53° parallelo fa si che la città risenta del tipico clima continentale con inverni molto freddi ed estati calde. La temperatura media di gennaio è di −10,6 °C, quella di Luglio è di +20,9 °C.

    La città venne fondata nel 1737 come fortezza di Stavropol a protezione delle terre russe dalle incursioni dei nomadi e per circa 200 anni, dalla propria fondazione fino alla metà del XX secolo, la popolazione della città non è cambiata in numero rimanendo a circa 10mila abitanti. Il 28 agosto 1964, nell’era Chrushev, il Presidium del Soviet Supremo della Repubblica Socialista Federativa Sovietica di Russia, decise di rinominare la città di Stavropol in città di Togliatti a perpetua memoria di Palmiro Togliatti, Segretario Generale del Partito Comunista Italiano, che però con la città non aveva mai avuto nulla a che fare.



    Ma perché un tale riconoscimento a Palmiro Togliatti?

    Palmiro Togliatti fin dagli anni ’20 lavorò a stretto contatto con i vertici del nuovo regime sovietico e nel 1926 lasciò l’Italia per trasferirsi a Mosca e prendere posto nell’Esecutivo dell’Internazionale Comunista insieme a Stalin e Trotskij e pochi altri. Quando di lì a poco Trotskij venne espulso dal partito russo, come controrivoluzionario, Togliatti ne appoggiò la decisione rimanendo al fianco di Stalin e della sua linea politica. Divenne presto uno dei massimi dirigenti del ComInter e nel 1936 venne inviato come massimo rappresentate dell’Internazionale in Spagna, durante la guerra civile. Rientrò in Italia all’indomani dello sbarco alleato nella penisola per prendere le redini del Partito Comunista Italiano e venne poi, negli anni ’50, proposto alla segreteria del Cominform dallo stesso Stalin. Alla morte di quest’ultimo e con il processo di destalinizzazione avviato da Chrushev, Togliatti si espresse al fianco del nuovo leader sovietico condividendone l’impostazione critica. Togliatti è stato pertanto, tra i massimi esponenti non sovietici del comunismo internazionale, quello che ha saputo esprimere con maggiore costanza e lealtà la propria vicinanza alla linea politica del Cremlino.



    Il secondo legame della città con l’Italia

    Nel corso degli anni ’60 la vendita di auto nel mondo iniziò ad aumentare e a diffondersi dando vita al boom automobilistico. In URSS, dove l’acquisto di auto da parte di privati ​​era divenuto possibile solo dal 1948 c’era invece ancora poca scelta, tra il modello Moskvich relativamente economico e la più costosa e quasi inaccessibile Volga. Oltre a questo, il numero di auto Moskvich prodotte era insufficiente per coprire la domanda. I vertici sovietici cercarono quindi di correggere la situazione avviando un progetto finalizzato alla realizzazione di un nuovo stabilimento automobilistico in grado di produrre oltre mezzo milione di autovetture all’anno e soddisfare così l’esigenza della popolazione di possedere un veicolo personale. Consapevole di non avere le conoscenze adeguate ma anche per accelerare la creazione di tale impresa, il governo sovietico decise di rivolgersi all’industria straniera. Nel 1964 iniziò quindi la ricerca di possibili partner esteri fra le produzioni automobilistiche della Repubblica Federale Tedesca (Volkswagen), della Francia (Renault) e dell’Italia (FIAT). La scelta finale cadde proprio sulla fabbrica italiana che era un noto produttore europeo di autovetture di varie classi, era in grado di produrre oltre 600 mila auto all’anno e soprattutto poteva progettare un impianto così grande come quello voluto dal governo sovietico. In quel periodo la fabbrica di Torino presentava al mercato il suo nuovo modello di utilitaria, la 124, fu questo il modello scelto dai russi come “auto del popolo”. Il 20 luglio 1966, dopo aver analizzato 54 diversi siti, il Comitato Centrale del PCUS e il Consiglio dei ministri dell’URSS decisero di costruire il nuovo grande stabilimento automobilistico sovietico proprio nella città di Togliatti. La realizzazione del progetto tecnico venne affidata quindi alla FIAT ed il 15 agosto dello stesso anno, Gianni Agnelli, firmò a Mosca il contratto con il ministro dell’Industria automobilistica dell’URSS, Tarasov.



    Curiosità

    Con la realizzazione negli anni ’60 dello stabilimento automobilistico AvtoVaz (da noi nota come LADA) e con lo sviluppo del relativo indotto industriale, nella città di Togliatti si ebbe un fortissimo incremento demografico. Nel giro di un decennio la popolazione arrivò alla cifra di 250mila abitanti, negli anni ’90 i residenti erano già 900mila.

    Per mia personale esperienza posso dire che non tutti in Russia, e non solo al di fuori della città di Togliatti, conoscono le origini di tale nome e a volte alla domanda: -“perché la città si chiama così?”, si ottengono le più disparate e creative risposte.

    Nel 1996, si è tenuto un referendum comunale per restituire alla città il nome storico, la consultazione non ha raggiunto il quorum anche se più del 70% dei cittadini intervenuti al voto si è comunque espresso a favore del mantenimento del nome di Togliatti.


    1280px-Road_mark_-_Togliatti



    Diciamo che per come gira oggi c'è da vantarsi


    personaggio di un male del Mondo , il COMUNISMO
     
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8 replies since 23/1/2021, 01:25   81 views
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