Sassuolo 1945

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    "chi è senza peccato scagli la prima pietra...."

    pensare che in queste zone sono successe cose vergognose di tal livello...m'inquieta


    mi piacerebbe vedere un commento delle nostre amiche...da facili definizioni
     
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    aspetta e spera :asd:

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    CITAZIONE (MarescialloGilardideiCenciaroli @ 8/6/2020, 14:24) 
    aspetta e spera :asd:

    Nozomi © ^HakunaMatata^

    Te la vai proprio a cerca' tu, eh.🙄
     
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    CITAZIONE (Stewie Griffin @ 8/6/2020, 14:47) 
    CITAZIONE (MarescialloGilardideiCenciaroli @ 8/6/2020, 14:24) 
    aspetta e spera :asd:

    Nozomi © ^HakunaMatata^

    Te la vai proprio a cerca' tu, eh.🙄

    con queste due me le andrò sempre a cercare :sii: :asd:

    almeno c è confidenza

    sono altre le persone strane sinceramente
    ma del resto cazzo possiamo farci, ognuno c ha i proprio cazzi
    eh dai
    non tollero solo la maleducazione gratuita

    👎

    allora mi perdi e divento pure volgare
     
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    pienamente d'accordo...
    bisogna guardarsi dai viscidi ambigui che covano celato disprezzo nel loro profondo...piuttosto
     
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    L'ORO DI DONGO


    Per "oro di Dongo" si intendono comunemente tutti i beni in possesso di Benito Mussolini, di Claretta Petacci e dei gerarchi al suo seguito al momento della cattura, la mattina del 27 aprile 1945, appena fuori dall'abitato di Musso; tali valori furono in gran parte sequestrati dal distaccamento "Puecher" della 52ª Brigata Garibaldi "Luigi Clerici" che aveva effettuato l'operazione e poi presi in consegna da vari esponenti del Corpo volontari della libertà o del PCI. L'utilizzo successivo di tali valori non è mai stato completamente chiarito.

    In cosa consisteva?

    beni appartenuti alle vittime del terremoto di Messina del 1908; parte dell'oro donato "spontaneamente" alla Patria per finanziare la campagna d'Etiopia, quelli che gli ebrei italiani di Salonicco cercarono di salvare dopo l'invasione nazista della Grecia e quelli appartenuti ai prigionieri di guerra; chili e chili di monili e argenteria lasciata dai Savoia al Quirinale nella frettolosa fuga da Roma dopo l'8 settembre e le ricchezze che i capi del fascismo speravano di portare in Svizzera, fra ciondoli d'oro, banconote di varia nazionalità, collane con cristalli, orecchini, bracciali, gemme, rubini e collier.

    Storie spesso drammatiche e misconosciute, come quella degli ebrei italiani di Salonicco, che durante l'occupazione nazista cercarono di salvare le cose più care affidandole alla Regia legazione d'Ungheria nella speranza di farle giungere a Roma: missive, risparmi, banconote, libretti postali e bancari. Tutto materiale che in realtà non si mosse mai dalla Grecia e che entrò in possesso del Tesoro solo nel 1962, tramite l'intervento della nostra ambasciata ad Atene. Ma a via dei Mille ci sono anche testimonianze di eccezionale valore documentario, come alcune quote del prestito che il finanziere John Pierpont Morgan junior concesse all'Italia fascista nel 1925 o il certificato del 1945 che attesta la sottoscrizione italiana al capitale della nascente Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo.


    sparito quasi tutto


    l 28 aprile 1945 è l’ultimo giorno di vita di Benito Mussolini. Ma anche la prima notte che il dittatore fascista trascorre con Claretta Petacci, la sua amante da dieci anni. Lui ha 62 anni, lei 33. La cascina dei De Maria, famiglia povera di contadini, si trova a Bonzanigo di Mezzegra, a una quindicina di chilometri da Moltrasio, vicino a Como. Sono ormai le tre di mattina quando i due prigionieri, il duce e la sua donna, arrivano alla cascina.





    La camera da letto ha solo una finestra, a otto metri da terra. La fuga è impossibile. Poi un treppiede con bacinella e asciugamano, due sedie, un attaccapanni, due comodini e una cassapanca. Sopra alla testiera del letto, c’è un quadro che raffigura la Madonna di Pompei. I due si coricano. Parlano sottovoce.



    Fa freddo, nonostante la primavera, e lui prende una coperta militare per coprire lei. La Petacci, invece, chiede ai due partigiani un altro cuscino per il suo “Ben”. Tra sonno e veglia si fanno le undici di mattina. Mussolini e Claretta si alzano e vanno alla finestra. Nel cortile c’è Lia De Maria, moglie di Giacomo. Vede la coppia che apre la finestra e si appoggia coi gomiti sul davanzale per guardare il lago di Como.



    DUE RAFFICHE ALLE 16.10

    Alle sette di mattina del 28 aprile, da Milano, su una Fiat 1100 nera con il parafango dipinto di bianco partono Walter Audisio, il “colonnello Valerio”, e Aldo Lampredi. Sono stati scelti dal comunista Luigi Longo, che è il responsabile delle formazioni garibaldine dei partigiani, per prendere in consegna Mussolini.

    corpi-benito-mussolini-138637



    Il duce è stato infatti arrestato dalla 52ª brigata Garibaldi il giorno precedente, poco dopo le 15 e 30 del 27 aprile. In fuga da Milano dalla sera del 25 aprile, senza una destinazione precisa sulla sponda occidentale del lago di Como, il dittatore viene scoperto su un camion di soldati tedeschi fermo nella piazza di Dongo, borgo lacustre.





    L’autocolonna fascio-nazista partita da Milano è stata dapprima bloccata a Musso, poi dopo una trattativa coi partigiani i tedeschi, ma non i repubblichini italiani, ottengono la ritirata. Di qui il travestimento di Mussolini, che indossa un largo cappotto da sergente della Luftwaffe. Ma nella piazza di Dongo un calzolaio partigiano che sale sull’ultimo camion teutonico, il quinto, s’insospettisce per quel soldato con gli occhiali scuri e il bavero rialzato. Il duce viene messo a morte 24 ore dopo l’arresto.



    Il “colonnello Valerio” e Lampredi, in compagnia di due partigiani della 52ª brigata Garibaldi, il “capitano Neri” e il commissario politico Moretti, arrivano alla cascina De Maria verso le 15 e 45. Prelevano i due prigionieri e ripartono. Percorsi un centinaio di metri in discesa, lungo il muro di Villa Belmonte, l’auto si ferma. Mussolini e la Petacci vengono giustiziati alle 16 e 10 con due raffiche del Mas 38 calibro 7,65 impugnato dal “colonnello Valerio”.





    UNA VENTINA DI VERSIONI

    In settant’anni di studi e ricostruzioni, gli ultimi giorni e le ultime ore di Benito Mussolini hanno avuto decine e decine di versioni. Un altro grande mistero è poi quello del famoso tesoro di Dongo, dal valore di otto miliardi di lire dell’epoca, che era nascosto in valigie e borse dell’autocolonna fuggiasca di tedeschi e gerarchi fascisti. All’oro del duce è dedicato il nuovo libro dello storico Gianni Oliva, che esce oggi per Mondadori: Il tesoro dei vinti.



    I SOLDI DELLA REPUBBLICA DI SALÒ

    Sono stati gli americani, scrive Oliva, a fare la valutazione del tesoro di Dongo: “A titolo di riferimento, si possono indicare i calcoli di John Kobler, funzionario amministrativo dei servizi segreti americani, e Edmund Palmieri, ufficiale della Commissione alleata di controllo in Italia. La loro ricostruzione è fatta incrociando testimonianze dirette, tracce di prelievi bancari, inventari parziali fatti sul campo.





    La somma totale ammonta a 66.259.590 dollari, pari a circa 8 miliardi di lire dell’epoca. In particolare, i due analisti statunitensi calcolano 61 milioni del ‘Fondo riservato’ della Repubblica sociale, l’equivalente di 1.210.000 dollari tra franchi svizzeri, pesetas, sterline e franchi francesi del fondo personale di Mussolini, 49mila dollari di anelli nuziali offerti dalle donne italiane per la campagna d’Etiopia, 4 milioni di fondi dell’esercito e dell’aeronautica del Reich requisiti sugli automezzi della Flak”.



    Una quantificazione precisa però è impossibile ed è per questo che anche sul tesoro dei vinti elenchi e ricostruzioni sono varie. Quella degli americani offre un riferimento, in ogni caso. Ci sono poi i 33 milioni in biglietti da mille lire che vengono scaricati a Domaso dai tedeschi in ritirata.





    Nell’autocolonna dei repubblichini non ci sono solo i gerarchi e il clan della Petacci. Un altro centinaio di italiani è in fuga verso la Svizzera. Il tesoro è disperso in troppe valigie. Le perquisizioni cominciano il 27 aprile, ma nel clima di confusione generale sono in tanti che riescono a trafugare gioielli e banconote. Arrivano così le prime lettere anonime sugli improvvisi arricchimenti di alcune famiglie lariane.



    Oltre al tesoro, c’è la documentazione segreta del duce, in tre borse. Altro mistero che dura da settant’anni. Il punto di raccolta delle perquisizioni, in quei giorni, è il municipio di Dongo. A fare l’inventario provvisorio di banconote e preziosi sono due partigiani dalla fama travagliata e controversa: Luigi Canali, il “capitano Neri”, e Giuseppina Tuissi, “Gianna”. I due si amano e il “Neri” si fida solo di lei.



    Interrotto dall’esecuzione di Mussolini e dei gerarchi, l’inventario viene comunque terminato e firmato dai vertici della 52ª brigata il 28 aprile. Nessuno ricorda il numero dei fogli dattilografati. Quattro o cinque. Forse di più. Dopo varie riunioni, si decide di affidare il tesoro alla federazione di Como del Partito comunista. Il segretario della federazione di chiama Dante Gorreri. La partigiana “Gianna” riempie cinque o sei valigie di cuoio giallo. I viaggi in auto per trasferirlo in auto da Dongo a Como sono due. Il primo è del 29 aprile.



    Il secondo avviene dopo l’arresto della “Gianna”, da parte degli stessi partigiani. I due, il “Neri” e la donna, sono sospettati di collaborazionismo. In realtà, l’accusa è falsa. Canali è giudicato troppo autonomo dalla linea stalinista del partito. Una volta nella federazione di Como, il tesoro svanisce, diretto al partito di Milano, dove ci sono Luigi Longo e Pietro Vergani, “Fabio”. Le divisioni tra gli antifascisti suggeriscono ai comunisti di custodire l’oro per le necessità del futuro democratico. C’è chi pensa, poi, che i soldi possano servire a completare la Resistenza con la rivoluzione comunista in tutto il Paese.



    Canali e la Tuissi vengono fatti sparire nella prima decade di maggio. Dopo tocca ad altri tre “testimoni”. Tutti ammazzati dalla “polizia del popolo” di orientamento comunista. L’inchiesta sul tesoro di Dongo comprende le accuse di omicidio premeditato e concorso in peculato, oltre a peculato, malversazione, estorsione, furto aggravato, ricettazione. Il percorso dell’inchiesta è tortuoso.



    La magistratura ordinaria e quella militare si rimpallano le indagini. Il processo, trasferito da Como a Padova, si apre nel 1957, nel clamore generale. Ma un giudice popolare della Corte d’assise si sente male e il processo viene sospeso. Quando poi questo giudice si suicida, tutto viene azzerato. Ma il processo non si farà più. Gorreri sarà parlamentare del Pci fino al 1972, Vergani fino al 1970, anno della sua morte. Sull’oro di Dongo e sui cinque omicidi della primavera del ‘45 non c’è mai stata verità, né giustizia.


    i probabili ladri


    Latitanti difesi a spada tratta dal Partito comunista, minacciati assalti alle carceri da parte dei partigiani, e sottrazioni alla giustizia di responsabili di delitti efferati: è il quadro impressionante delle illegalità diffuse, nel Comasco, dopo la sparizione del tesoro di Mussolini, il famoso «oro di Dongo», secondo quanto emerge da alcune carte supersegrete che si riteneva fossero andate perdute.Si tratta di una serie di «riservatissime» inviate al capo del governo dalle massime autorità lariane, verso la fine del 1945, per segnalare l’impotenza dei pubblici poteri, incapaci di restaurare l’ordine.


    Rapporti allarmati, nei quali sia il questore sia il prefetto della Liberazione, entrambi antifascisti, denunciano pratiche illegali assai estese e le resistenti connivenze ambientali di parte della popolazione con gli «squadroni della morte» che avevano diffuso il terrore tenendo in ostaggio la società civile.Il questore di Como, l’avvocato Davide Luigi Grassi, liberale, al processo di Padova del 1957 sull’«oro di Dongo» affermò di non disporre di copie di quegli atti ufficiali, i quali però furono trascritti, forse a sua insaputa, da un collaboratore, il capo dell’ufficio politico della Questura lariana Luigi Carissimi-Priori: l’uomo che trafugò anche una copia fotografica del carteggio Churchill-Mussolini.Carissimi-Priori, prima di morire, consegnò a chi scrive i testi di quei rapporti. Il primo di essi, senza data, e redatto appunto da Grassi, ricostruisce un inedito retroscena sul furto dell’«oro di Dongo». Si tratta di quasi 36 chilogrammi di oggetti aurei, ripescati dal fiume Mera, e depositati insieme a 30 milioni di lire nella filiale della Cariplo di Domaso. Finora si ignorava che la Questura di Como, già il 1° maggio 1945, avesse tempestivamente inviato in alto Lario un funzionario della Banca d’Italia, con scorta armata della polizia, per prelevare il malloppo e chiuderlo nei caveau dell’istituto di emissione. Questa operazione venne però neutralizzata, con un raggiro, dai capi partigiani della 52ª Brigata Garibaldi, vale a dire dagli stessi responsabili della fine di Mussolini.Il dirigente della Banca d’Italia fu abilmente sviato, con la scusa che si era a tarda ora e le operazioni di sportello erano già terminate. L’indomani mattina venne scoperto l’inganno: i valori erano già stati prelevati e sottratti, con l’accordo del comando di brigata, dal partigiano comunista Michele Moretti «Pietro», da alcuni ritenuto il vero protagonista dell’esecuzione del Duce. Moretti avrebbe portato quel carico prezioso a Como, dove venne accuratamente contabilizzato prima di prendere la via di Milano, per finire nelle casse della direzione centrale del Pci.


    Scrive il questore Grassi: «Da quel momento il Moretti diventa irreperibile e la sua latitanza è tenacemente difesa ed aiutata da "Francesco" [il partigiano Pietro Terzi] e da molti altri che notoriamente appartengono al Partito comunista o meglio alla tendenza estremista del partito stesso. È qui che si entra nel giallo, perché infinite sono state e sono le supposizioni, le indagini, le tracce. Solo l’arresto di Michele Moretti, se interrogato con astuzia potrebbe dare un po’ di luce in tante tenebre: ma è a temersi che, o il Moretti ove non fosse più possibile difendere la sua latitanza verrà fatto sparire non altrimenti del capitano "Neri", della "Gianna", di certa Annamaria [Bianchi] e di altri che molto sapevano o che molto volevano sapere sull’oro del Duce, o il Moretti dovrà una spiegazione tale che non condurrà ad alcun risultato positivo e si ritornerà nelle tenebre».Ma, come si diceva, Moretti è latitante, e a nulla valgono gli sforzi delle pubbliche autorità per assicurarlo alla giustizia.


    Il 25 dicembre 1945 il prefetto di Como, il socialista Virginio Bertinelli, invia al presidente del Consiglio Alcide De Gasperi un’altra relazione nella quale rincara la dose: «Con l’arresto del Moretti si potrebbe seguire l’ulteriore cammino e destinazione dell’oro che peraltro conducono per varie vie e secondo le notizie che si hanno, al Partito comunista di Como e di Milano, al quale e per il quale, tutti gli attori di tale vicenda appartengono e operano. Altra sintomatica circostanza è che il Moretti è sempre in contatto con compagni di tali città e ha con loro collegamenti permanenti per sue informazioni e a sua difesa. È stato notato a Milano e a Como al seguito di un funerale di un compagno, ha preso parte a una riunione di influenti compagni e attualmente si troverebbe nella zona di Mantova, insieme al compagno "Francesco" al secolo il comunista Pietro Terzi suo complice.


    Tal "Francesco" tempo addietro prelevò dal carcere del Battaglione della Polizia Civile di Como, in piena complicità con gli agenti e con l’allora comandante comunista Losi, il compagno "Ardente", al secolo il comunista Poncia, che era a disposizione, per i fatti dell’autocolonna [di Mussolini], del Comando alleato, il quale seppe dell’evasione dopo otto giorni, quando si recò ad interrogare l’"Ardente". Il Partito comunista nasconde e sottrae invece alla legge i colpevoli e impedisce che il Moretti parli e sia messo a disposizione delle autorità».


    Questi documenti hanno una grande importanza, in quanto dimostrano due cose. Primo: smentiscono che le autorità del tempo non conoscessero i fatti e che non avessero accertato le responsabilità penali individuali in tempi anche molto celeri. Secondo: non è vero che i pubblici poteri non fossero interessati a perseguire le diffuse condotte criminose dei partigiani "rossi", il fatto è che mancavano gli strumenti legali e le condizioni politiche per farlo. Una circostanza spiega, sopra ogni altra cosa, la natura di quell’impedimento: la Democrazia Cristiana, i liberali e le altre forze moderate coabitavano al governo con il Partito comunista, il quale, con Palmiro Togliatti, deteneva nientemeno che il ministero della Giustizia.

    In quel contesto, era impensabile poter agire con efficacia contro il crimine politico organizzato da una determinata matrice.Le condizioni diverranno politicamente favorevoli, al tempo in cui si preparò l’allontanamento del Pci dall’area di governo, nel maggio del 1947. A quell’epoca fu impressa un’accelerazione al lavoro della magistratura, che poté cominciare a perseguire i rei di tanti misfatti. I risultati, alla fine, furono però deludenti, per tanti motivi. L’impunità purtroppo finì per trionfare, salvo poche, lodevoli eccezioni.


    distanza di anni

    come per incanto

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    E’ il 1996, piena era post-ideologica, quando Roberto Festorazzi, nel libro Tesoro di Dongo, comincia a fornire una maggiore chiarezza storica a ciò che, nei cinquant’anni precedenti, gli eccessi della vulgata antifascista apologetico-resistenziale aveva tenuto nascosto o trattato con faziosità, ossia il famoso oro di Dongo, un patrimonio la cui cifra oscillò tra i 200 e i 600 miliardi di lire, il quale venne fuso ed incamerato occultamente dal Partito Comunista Italiano con abili investimenti immobiliari nel capoluogo lombardo e a Roma.

    Per quanto concerne il capoluogo lombardo, vennero comprati dal Partito Comunista appartamenti, villette e un intero edificio nella zona più centrale, esattamente in Via Pietro all’Orto, traversa di Corso Vittorio Emanuele (all’epoca centro nevralgico di forti speculazioni edilizie).

    Per la costruzione dell’edificio – che attualmente ospita il cinema Arlecchino – Pietro Secchia, colui che non ci avrebbe pensato due volte a scatenare una guerra civile nel clima incandescente pre-elezioni del 17 aprile 1948, affidò ad Alfredo Bonelli il compito di finanziare la costruzione dell’immobile.

    Acquirente di tale immobile divenne, successivamente, l’industriale Cella, colui che rilevò da Benito Mussolini, alla vigilia della partenza da Milano verso il Ridotto Alpino Repubblicano (25 aprile 1945), la tipografia de Il Popolo d’Italia in piazza Cavour a Milano, la quale divenne la prima sede de “l’Unità”.

    Per quanto concerne Roma, il denaro sottratto dall’oro di Dongo e dalle casse fasciste della Repubblica Sociale Italiana (esperienza che si chiuse con un attivo di 20 miliardi e 900 milioni di lire) venne rinvestito dal Partito Comunista nell’edilizia e in terreni in cui si stavano costruendo palazzine iniziate nei primi anni della guerra.

    Il caso lampante è il palazzo di via delle Botteghe Oscure, sede della direzione del PCI, acquistato per 30 milioni di lire dalla Società di Riassicurazioni. Gli avversari politici lo ribattezzarono subito “palazzo Dongo” senza torto alcuno.

    Infatti, stando a quanto testimonia Alfredo Bolelli, socio di Pietro Secchia negli affari edilizi milanesi del PCI, i bigliettoni da mille che, per impossibilità, non furono investiti nel capoluogo lombardo, furono investiti a Roma nell’acquisto di una tipografia e due proprietà immobiliari, una appunto nella via adiacente a Largo di Torre Argentina.

    A smascherare gli introiti finanziari del PCI sono inoltre Valerio Riva e Francesco Bigazzi nel loro saggio monumentale, in cui si narra con attenzione la vicenda legata alla speculazione edilizia del palazzo di via Pavia a Roma, in cui emerge una collusione cospiratoria tra la Società Anonima Terreni Edilizi (SATE) e alcuni suoi azionisti di maggioranza, Angelo e Samuele Sonnino, prestanome del Partito Comunista Italiano appartenenti a ricche famiglie ebree comuniste della Roma bene.

    Avendo mosso abilmente le pedine, ponendo due azionisti di maggioranza all’interno della SATE, il Partito Comunista si arroga il diritto di convocare l’assemblea dei soci non più nella sede legale della SATE, bensì negli uffici amministrativi del PCI in Corso Rinascimento, a Roma.

    Mossa che porterà ad un aumento del capitale sociale della SATE di circa 1 milione e 700 mila lire, la costituzione di un nuovo consiglio d’amministrazione, in cui spicca la figura di Alfio Marchini, organizzatore dei GAP, e attentatore, insieme a Rosario Bentivegna, per quanto concerne la strage di Via Rasella del 23 marzo 1944 ai danni di 33 ufficiali del Reparto altoatesino Bozen e capo del comando militare del PCI romano e un nuovo organo sindacale, in cui figura il nome di Walter Audisio, alias “il colonnello Valerio”, colui che, tra contraddizioni e mistificazioni, viene considerato dalla storiografia paranoide il sedicente esecutore dell’assassinio di Benito Mussolini a Giulino di Mezzegra il 28 aprile 1945.

    La presenza nel collegio sindacale di Walter Audisio, di Alfio Marchini e del fratello, coordinatore del sistema di spionaggio PCI-forze alleate durante la guerra civile, è un’implicita testimonianza di come il palazzo in via Pavia sia stato costruito con i proventi giunti dall’oro di Dongo.

    Tesi, questa, che viene confermata anche nel libro di Festorazzi citato poc’anzi, il quale sostiene che l’aver seppellito magistralmente per 50 anni la vicenda su Dongo non abbia assolutamente impedito alla gente di pensare che le istituzioni repubblicane possano essere considerate anche nasciture rispetto a un furto, in quanto il destinatario dei proventi sottratti dai partigiani comunisti non fu lo Stato, bensì il partito: il PCI.

    Bettino Craxi, in sede di processo sulle tangenti Emimont ai partiti (1993), colse perfettamente nel segno quando ebbe a dire che in Italia il sistema di finanziamento ai partiti conteneva delle irregolarità e illegalità sin dagli inizi della terza parentesi repubblicana e che la vicenda dell’oro di Dongo non si limitava a ladrocini di ordinaria amministrazione, ma conteneva al suo interno una sorta di “leva mortale” che fa si che si scaturiscano feroci regolamenti di conti in campo politico/istituzionale.

    Non è un caso, infatti, che nelle ombre del lago di Como si siano consumati, tra il maggio e il giugno 1945, feroci regolamenti che nulla hanno di diverso a quanto successo tra il 1945 e il 1949 tra Parma, Modena e Reggio Emilia con il cosiddetto Triangolo della Morte emiliano (o Triangolo Rosso).

    Per un’ulteriore conferma basta leggere i verbali del processo di Padova, celebrato nel 1957 per fare luce su quei fatti per accorgersi immediatamente che sullo sfondo della “vicenda Dongo” vi era un intreccio di opposte visioni politiche: la prima, partitocratica e antilegalitaria, si scontrava con quella fedele alle regole dello Stato di diritto.

    In sede di processo, i comunisti non ammisero mai di aver depredato il Tesoro di Dongo per ricostruire il partito, tuttavia dovettero riconoscere che quel “prelievo” andò al comando della Divisione Garibaldi. Poiché la lunga prassi cospiratoria (come nel caso della SATE – palazzo via Pavia a Roma) aveva abituato i comunisti a non lasciare traccia dei movimenti contabili, si preferì non continuare a forzare la mano su quegli impieghi di denaro in sede di processo.

    Resta comunque chiaro come, analogamente all’appropriazione dell’oro di Dongo del PCI, anche l’appropriazione di denaro da parte della Divisione Garibaldi sia da considerarsi illecito a tutti gli effetti. Segreti ed intrallazzi, quelli del PCI, che non riguardano solo gli introiti finanziari derivati da appropriazione di denaro illecito, bensì anche la copertura giudiziaria per quanto concerne gli attentati della Volante Rossa nella Milano del 1947.

    Il gruppo terroristico Volante Rossa – Martiri Partigiani opera nel capoluogo lombardo per circa 4 anni, dall’estate del 1945 al 1949 (analogamente allo stragismo emiliano) ed è costituito da reduci della 116a, 117a e 118a Brigata Garibaldi, i quali, dal 9 gennaio 1947 fino al 27 gennaio 1949 si rendono autori di diverse operazioni terroristiche e omicidi, di cui non si conosce esattamente il numero esatto.

    Si è a conoscenza della cifra esatta, invece, del numero dei componenti contro cui viene celebrato il processo nel 1951: 32. Dei seguenti elementi, 27 sono in carcere e 5 latitanti. Il processo del 1951 terminerà con la condanne di 23 imputati tra le quali 4 ergastoli.

    Dei cinque latitanti condannati in contumacia, tre – Giulio Paggi, Paolo Finardi e Natale Bruno – sfuggono all’arresto grazie all’abile complicità del PCI, il quale mette a disposizione mezzi per l’espatrio in Cecoslovacchia (per quanto concerne Giulio Paggi e Paolo Finardi) e in URSS (per quanto concerne Natale Bruno). I 3 saranno successivamente graziati da Sandro Pertini, il 26 ottobre 1978. Alla faccia della questione morale.



    Vista a mio parere

    erano beni dell'Italia non del PCI

    """FINO ALL'ULTIMO BANDITO"""


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    CITAZIONE (Stewie Griffin @ 8/6/2020, 14:47) 
    Te la vai proprio a cerca' tu, eh.🙄

    con queste due me le andrò sempre a cercare :sii: :asd:

    almeno c è confidenza

    sono altre le persone strane sinceramente
    ma del resto cazzo possiamo farci, ognuno c ha i proprio cazzi
    eh dai
    non tollero solo la maleducazione gratuita

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    allora mi perdi e divento pure volgare

    Fulvio, tu mica sarai di quelle persone che portano rancore per tutta la vita?
     
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    con queste due me le andrò sempre a cercare :sii: :asd:

    almeno c è confidenza

    sono altre le persone strane sinceramente
    ma del resto cazzo possiamo farci, ognuno c ha i proprio cazzi
    eh dai
    non tollero solo la maleducazione gratuita

    👎

    allora mi perdi e divento pure volgare

    Fulvio, tu mica sarai di quelle persone che portano rancore per tutta la vita?

    se uno è stronzo nato nel sangue sì, appartengo alla categoria.
     
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    CITAZIONE (MarescialloGilardideiCenciaroli @ 8/6/2020, 19:31) 
    CITAZIONE (Stewie Griffin @ 8/6/2020, 19:12) 
    Fulvio, tu mica sarai di quelle persone che portano rancore per tutta la vita?

    se uno è stronzo nato nel sangue sì, appartengo alla categoria.

    E se uno è stronzo perché attraversa un periodo particolare della sua vita?
     
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    CITAZIONE (Stewie Griffin @ 8/6/2020, 19:36) 
    CITAZIONE (MarescialloGilardideiCenciaroli @ 8/6/2020, 19:31) 
    se uno è stronzo nato nel sangue sì, appartengo alla categoria.

    E se uno è stronzo perché attraversa un periodo particolare della sua vita?

    beh quei periodi li attraversiamo un po tutti, non per questo andiamo a sfottere la gente , specie se non si conosce o non c ha fatto nulla...

    di conseguenza un pizzico di stronzaggine nel dna ce l avrà sicuro il tipo che attraversa un periodo particolare della sua vita.
     
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    CITAZIONE (MarescialloGilardideiCenciaroli @ 8/6/2020, 19:41) 
    CITAZIONE (Stewie Griffin @ 8/6/2020, 19:36) 
    E se uno è stronzo perché attraversa un periodo particolare della sua vita?

    beh quei periodi li attraversiamo un po tutti, non per questo andiamo a sfottere la gente , specie se non si conosce o non c ha fatto nulla...

    di conseguenza un pizzico di stronzaggine nel dna ce l avrà sicuro il tipo che ha attraversa un periodo particolare della sua vita.

    Ma che è successo qualcosa che pare che tu ti riferisca a qualcuno in particolare?
     
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    no no no...

    ero solo generico
     
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    CITAZIONE (MarescialloGilardideiCenciaroli @ 8/6/2020, 19:45) 
    no no no...

    ero solo generico

    Mi sembri l'ispettore Javert. :lol:
    Non dai altre chances a nessuno. :(
    La vedo un po' bruttina sta cosa a dire il vero.
    Io invece la vedo diversamente. Cerco sempre di dare l'opportunità agli altri di migliorarsi.
    E poi per carattere porto rancore ma per poco tempo.
    Difficile che ce l'abbia con qualcuno per qualcosa per oltre un anno o giù di lì.
     
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    chi l'ha messo ai tempi ha fatto proprio un bello sfondo :):


    eam8w5
     
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63 replies since 7/6/2020, 01:46   3095 views
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